Libercolo dell’onta intitola il suo primo scritto Alfonso Benadduce, attore e regista giovane, ma già noto per opere teatrali quali Tragedia al di là di Prometeo da Eschilo, La morte del giovane principe dall’Amleto di William Shakespeare, Paradiso perduto – pandemonio da John Milton, per citarne alcune. Il titolo di questa breve composizione si propone come un programma, in cui la tematica, costituita da aforismi, e la lingua mediante la quale viene resa sovvertono, nel delirio della ratio che ricerca se stessa, i canoni consueti. Il lettore si avventura, infatti, in un labirintico non-sense per affrontare un viaggio nelle tenebre della scrittura vicina alla forza di un gesto e che del gesto mantiene la manifestazione e il segreto.
Un testo frammentato, un luogo di bui ed ombre nel racconto piegato all’orrore, nella lingua rassegnata al vuoto. L’incipit “non leggete questo libro”, allora, risulta una sfida lanciata a quanti cercano di penetrare all’interno di un procedere ‘assurdo’, ove la compresenza degli opposti crea una sorta di continuo logorante ‘assedio’ che, nel tentativo di scoraggiare ed allontanare, riconduce il paradosso alla tautologia che imbriglia autore e pubblico.
“Scappavo, volavo in ogni spazio, ma mai compariva la parte di infinito che sapeva contenermi” recita l’autore proteso verso la fuga da quell’universo che sembra emarginarlo e soggiogarlo al contempo, che offende per essere offeso ed è offeso per offendere, al fine di giungere al grande zero della vita e della scrittura per ricominciare poi quel perenne dissidio tra essere e voler essere, precipua connotazione del suo io.
Le contrapposizioni ricorrenti rimandano ad una sorta di fictio con uno slittamento verso il nuovo che tuttavia affonda le sue radici nella più antica ars retorica. Se l’incapacità del vivere, come sostiene Benadduce nella Lettera agli umani “Non riesco a vivere e non so dire perché”. Nulla che riguardi il passato o il futuro mi ha mai riguardato”, ribalta il passato ed il futuro a favore della “sciocca percezione dell’adesso”, quasi riducendo, restringendo il tempo e lo spazio in una brevitas spinta alla dissoluzione, la condizione dell’esteta comunque si insinua secondo i tratti dell’eroe decadente: “Basterà solo scrutare e organizzare la mia persona per fare della mia vita il mio capolavoro”. Un approdo verso se stesso rimarcato dalla reiterazione dell’aggettivo mia…mia…mio e dal cursus planus, ‘capolavoro’, sentenzioso che chiosa il frammento, destinato poi ad involgersi nel dedalo dei ricordi dimenticati e degli addii.
“Egli resta solo. Di tutta la sua giovinezza, di tutta la sua vita interiore… non restava nulla se non un freddo abisso vacuo” si legge dell’Andrea Spinelli nel D’Annunzio. L’inanità respinge nell’intimo dramma l’insoddisfazione, l’inadempienza del referente rinchiude il protagonista del Libercolo nel solipsismo della sua esistenza ancora dimidiata, stigmatizzata dall’irriducibile conflitto del distruggere costruendo e del costruire distruggendo: “Non ho più voglia di inseguire la felicità, la profumata pace. Adorerò il puzzo delle ascelle bagnate, coltiverò i punti lancinanti del dolore, affonderò sempre più i piedi nella maleodorante materia. Amerò tanto.” Le medesime locuzioni ritornano a p 41, evidenziando il ritmo prosastico quasi affannoso per l’uso sequenziale e incalzante dei verbi al futuro con pause brevi, quel futuro che dilata il tempo e reintroduce il dettato antitetico. “ A morte l’amore” grida l’autore, eppure quell’amore gli consente di “odiare” secondo il climax (ammazzando… massacrando) di colui che vuole imporsi e vanificare insieme per trasformarlo “fosse solo per partito preso” nell’anticlimax della morte e della dissoluzione finale. Ed ancor esso, nel gioco di affermare negando, essere e sparire, diviene elezione, tensione superiore di una inumana umanità.
“J’aime l’horreur” cantava Mallarmè, in una coesistenza di opposti che il Nostro riecheggia nell’amare l’odio, la stessa onta subita e scagliata, nell’attesa della morte “Qualunque essa sia spero mi colga presto”, ove la clausola col cursus velox, ‘spero mi colga presto’, segna la rapidità del ritmo. Ed ancora “ come una marcia funebre quieta, continuamente andavo verso il mio letto tragico, il mio talamo mortuale. Quanta ossessione dedicata alla morte, quanto patetico crepacuore nel districarmi tra i pensieri del mio silente, funerabile addio. La mia indole inumana risuonava a suon di cordoglio e di gran cassa: nocumento della mia essenza, parata di gramaglie dei miei respiri. Come fare a soccombere dunque, e ripeto ancora, spirare, esalare, decedere, mancare, senza straziarmi oltre con impeccabili pensieri di fine e perdizione?”. Amore della morte, dunque, che sembrerebbe sconfinare nel nulla di un’opera suicida che si allinea pure alla letteratura postmoderna e al noveau roman nell’uso feroce ed essenziale della parola e per il senso di vuoto che rammenta i romanzi di Marguerite Duras. Ma l’inganno è sotteso, proiettato all’implicazione, all’inversione dei ruoli e del vero. Un oltraggio confessato in frammenti con inserti lirici a testimoniare la vocazione teatrale, sperimentata nei dialoghi con didascalie, con l’indicazione degli atteggiamenti dei potenziali attori. E a liberazione finale del ‘suicidio’ – “del mio in concreto ho detto tutto, non ho il benché minimo vacuo rischio d’essere inteso, né da me né da altri, mi arrendo all’incomprensione della mia figura, persona o non so che” . nasconde quel “massacro dipinto di bianco… il finto che urla di vero”, ancora un pensiero stigmatizzato con sentenziosità dal cursus planus, ‘che urla di vero’, un massacro al quale tuttavia ci si vuole sottrarre attribuendo alla finzione la chiave di lettura dell’intera scena, “mai fingere di fare davvero, ma fare veramente finta sulla scena”.
La maschera che serve a smascherare come arma di offesa-difesa di un “personaggio scosceso”, e non sopito restituisce al Libercolo lo spregio della falsità dilagante, sublimando “il finto che urla di vero”, lacerando il sipario del nulla, affinché la voce e il diluvio riedifichino i modi dell’essere.